Rosa Pierno, 2009
Peter Flaccus, Storia Percorso


Sperimentare è parola spuria, incrostata da sedimenti, scarti, ritagli e il percorso artistico di Peter Flaccus è, inoltre, una vera e propria storia di ricerca mai soddisfatta. A iniziare dalle tavole in cui la cera vergine è stesa sulla tavola lignea col suo colore naturale ed è attraversata da nastri di cera di colore bianco che incidendo la precedente superficie, la intersecano a vari livelli di profondità facendo emergere una superficie pressata, scavata, nel tentativo di dimostrare l’eccedenza di un’insopprimibile volumetria.

Questo nastro porta con sé il gesto, ma espunto della sua casualità. In esso, il tempo, anziché essere bruciato in un solo espressivo istante, è invece dilatato, tenuto per tutto il tempo necessario con grande fermezza al fine di ottenere il risultato voluto, cioè quello ravvisato sulla tavola di legno.

La stratificazione che vede il sovrapporsi di nastri colorati a strati di colore neutro, intrappolati come amebe in una vischiosa resina, costruendo vari piani, tutti sempre leggibili attraverso l’ultimo strato, reca con sé il rapporto con la tradizione, la quale va sempre interpretata, riscoperta, decifrata. Segni galleggiano, si attraversano, si accavallano: giungono da profondità intestine all’evidenza della coscienza. In questo senso, tecnica è ricerca e scoperta insieme.

Aggiungendo il colore come elemento che stravolge l’assetto formale, bisogna ricominciare daccapo. Bisogna rivalutare tutti gli elementi, colore, infatti, emerge e domina. E’ necessario individuare quell’equilibrio in cui il colore non distolga l’attenzione dai bordi, dalla cornice, dalle distanze tra gli elementi.

Il rapporto profondità/superficie, il segno inciso e in rilievo, la trasparenza e l’opacità, il gesto e l'astrazione geometrica sono tutti temi affrontati in maniera affatto nuova, sì che pare, dinanzi ai quadri di Peter Flaccus, di fronteggiare la quintessenza della storia della pittura. Il tempo è la dimensione principale dell’operare artistico di Peter. Il lento procedere necessario nella tecnica ad encausto pone l’artista sempre a un bivio, dinanzi a una riflessione sulle strade, anche casuali, che l’opera può prendere.

D’altronde, di tempo necessita anche il fruitore. Un quadro è un’opportunità di riflessione. Su ogni quadro bisogna sostare, scoprire, cercare. Nemmeno nella perlustrazione del nero si può scivolare velocemente: bagliori emanano, rendendolo vellutato e percorribile, vi si affonda come se si percorresse una vischiosa crema. Dal nero, con difficoltà, quasi come fosse una conquista, si giunge sul bordo della figura diversamente colorata.

E qui è necessario effettuare un altro inciso su una delle questioni basilari che la pittura di Flaccus pone: l’ambiguità. L’ambiguità non fine a se stessa, ma strumentale a quella forma di conoscenza che definiamo analogia e che è sottesa a tutti i campi dello scibile umano. Così che ancora una volta ci pare paradigmatica la sua opera, poiché ci pone un quesito persino sul nostro intervento nella valutazione delle cose e in particolare sulla divisione artificiale tra forma e informale, tra figurazione e astrazione. Le forme che efflorano dal morbido lampeggiante nero si danno al nostro sguardo in plurime interpretazioni - corolle, galassie - quanto basta per farci rimanere penzoloni sul confine incerto dell’attribuzione e portare alla nostra attenzione non secondari quesiti. Come se all’improvviso fossimo stati catapultati nel regno di Alice nel paese delle meraviglie, quella che appariva come una corolla, si trasforma in una macchina per invertire le nostre sensazioni spaziali. Dai frastagliati e variegati bordi della corolla veniamo risucchiati in uno spazio di avvolgente lattiginosa luce. Ove precipitiamo, eppure mentre siamo ancora e sempre su una tavola trattata ad encausto.

E’ così che comprendiamo le dimensioni conoscitive che si dischiudono in queste opere e a cui non possiamo sfuggire nemmeno lasciandoci abbindolare dall’estrema eleganza delle sue tele. I grigi perlacei di setosa riflettanza dispiegano sulle pareti collezioni di forme ambigue e morbide, evocanti movimenti di fascinose forme organiche trascinate da correnti marine e contemporaneamente fissate in una resina fossile.

Il passaggio a un dimensione maggiore ottiene la formazione di un collage geometrico, una specie di collezione logica, legata da incastri perfetti e contenente tutte le forme necessarie per rendere esaustiva la collezione.

Come in una sospensione, dette forme galleggiano, quasi prive di legame o di relazione l’una con l’altra. Le differenti distanze a cui sembrano fissate, pur se colte nella loro fase di espansione, le rendono estranee l’una all’altra. Forse lo stato è quello di un singolo fenomeno preso nelle differenti fasi del suo sviluppo.

A penetrare in tali sfiatatoi, bolle di vetro da cui emana una fiamma incandescente che promette un interno senza fondo, si può restare per qualche istante a percolare sulla superficie tramata di venature in cui parrebbe vedere scorrere clorofilla: fiori galattici o mostruosi che rendono l’ambiguità quasi un delirio. Poiché l’ambiguità è il contenuto principale di queste opere. E’ il motore che avvia la proliferazione di senso, che afferra la nostra capacità di coinvolgimento. Non solo ci sentiamo intrappolati come lumache sul piano curvo che non vede l’ulteriore dimensione, ma anche dal tentativo di afferrare ciò che percettivamente non possiamo avvertire. L’ambiguità è ineliminabile. E’ sufficiente, infatti, cambiare contesto a una parola per vederne mutato il senso. Allo stesso modo funziona con le immagini. Un mondo mai immobile e mai definito è quello che Peter Flaccus abita e sul quale indirizza il nostro sguardo.

Dagli esordi al 1986
Agli esordi, vi è l’interesse per un paesaggio esperito come fosse un corpo a corpo, in cui il movimento prevale sulla materia, la trasformazione sulla stasi fino alla riduzione della sostanza tutta a un unico colore, oro, transustanziale alchemica metamorfosi, ove solo l’acqua rimane uguale a se stessa e stempera gli ardori interiori della lotta.
O anche per un paesaggio come gigantesco happening, giostra di cartapesta che esalta ogni più piccola sensazione, fino a renderla artefatta. Se il paesaggio è animato, lo è anche per la diversa scala in cui è rappresentato. Sembra quasi un’immagine frattale ove il paesaggio è parzialmente ricoperto da suoi stessi particolari e dallo stillare di resinoso unificante liquore. Tale carta geografica macera sotto questa coltre e presto il colore si solleva assumendo autonomo valore, perdendo il suo referente. Eppure, paesaggio resta ancora paesaggio, poiché lo riconosciamo.

Dal 1987 al 1989
L’interiorità dell’artista ha digerito le premesse, ha inglobato rocce e torrenti, ha fatto esperienza di un moto che è dettato dalle proprie capacità. E’ forse divenuta essa stessa materia da esperire. Ora tutto giace sul medesimo piano, persi i volumi pietrificati e le gole magmatiche e le nere grotte. Come se l’artista avesse, attraverso l’esplorazione del paesaggio, distillato un più astratto rapporto con la dimensione spaziale e il sopra non coincidesse più con il cielo e il sotto con la terra. Ora lo spazio è attestato dal movimento. Un moto soggetto, comunque, a regole. Il mistero resta quello delle trasformazioni e delle metamorfosi che rendono la materia coesa, pur se franta, che la denunciano come incongrua, pur se miscelata. In ogni caso presente. Esiste una logica di cui, pure, bisogna riconoscere il valore paradossale.

1990
Ci sono dei punti di snodo, come delle boe superate, quando a volte si considera il percorso di un artista nella sua totalità. Quasi esistesse una legge, non certo del progresso, in cui si possono individuare fasi, guadi, soste. E uno di questi passi è rintracciabile nelle strisce bianche, zone in cui la materia è stata strappata: zone di vuoto, le quali sono presenti allo stesso modo in cui è presente la materia: caoticamente. Anche con esse si può costruire la profondità, oltre che attraverso l’intreccio e la stratificazione. Il vuoto, tuttavia, può cancellare tutto. Fare piazza pulita. Può ricoprire come un tappeto sotto cui si nasconda lo sporco. Può dilagare e sommergere. Può rendere percepibile la profondità attraverso una sottrazione.

1991
Anno di svolta. Se il bianco campisce l’intera superficie, allora tocca ripartire da questa sorta di tabula rasa, per ridefinire il mondo, per porre i propri segni. Lievi, topologici, prima che geometrici. Non scrittura né ancora pienamente disegno: un alfabeto con cui comporre l’uno o l’altro, però. Sorta di stadio intermedio, di limbo figurativo e semantico.


Dal 1992 al 1994
Flaccus ritorna al colore. Ma questa volta abbandonando la pittura ad olio e sperimentando con la tecnica della cera a encausto la distribuzione di un pigmento steso con un pennello molto largo con cui costruisce figure geometriche, quasi esulando dalla superficie, diremmo, poiché la trasparenza della cera crea l’illusione di una volumetria. Una volumetria costruita con la luce, poiché è essa che intercetta i piani e li dissolve in una continua immateriale proiezione. E’ sempre la storia di una lotta, in cui cornici intervengono a stabilire un contesto di riferimento che vorrebbe saldare in una ferrea morsa lo sfaldarsi di tali oggetti.

Dal 1995 al 1996
Un saldo ritorno alla topologia, alla creazione di uno spazio attraverso segni che ricordano i vortici di Cartesio: macchine che attraverso il movimento creano mulinelli, lasciando scie, e interpretano lo spazio come una superficie acquorea, scivolosa, ove galleggiano e nuotano forme primordiali, organismi monocellulari (ricordano ciò che si vede in una camera a bolle). Ma anche in questa serie, ben presto intervengono pennellate bianche che cancellano: l’atto aurorale appare più significativo dell’atto della costruzione.

1997
E’ la linea l’elemento che conquista una posizione di rilievo in questo periodo. E la nascita è precisa: le linee ritagliano una materia densa e si staccano dal fondo che appare maculato, coacervo indistinto, brodo di coltura, ove il segno è definitivamente venuto alla luce nella sua piena definizione. Oppure, a volte intercettate da un fondo, queste virgole, queste chiavi di violino, si rompono a loro volta e si ricompongono all’interno della medesima superficie, dialogando con il colore contro cui si stagliano.

Dal 1998 al 2002
Il segno è precisissimo: quasi intarsiato, ritagliato, sagomato con utensili taglienti. E la superficie si flette, ondeggia, crea profondità e trasparenze che fanno trasalire, quasi provenisse da stratificazioni portate alla coscienza. Aree e linee delineano una nuova geografia, senza nomi e prive di riferimenti se non quelli della loro relazione. Il dialogo, fitto fra zone sfrangiate e zone cesellate, fra stratificazioni e galleggiamenti degli elementi rispetto allo sfondo, avviene tramite la declinazione di un colore dolcissimo, mieloso, diremmo, suadente. L’intervento delle sfumature consentito dalla tecnica a encausto rende sfumato il trapasso tra forme organiche e geometriche.

2003
Come raggrumandosi intorno a un nucleo di luce, un palpitante generatore di forme circoscritto, se non un cosmo, da un vuoto nero riconosciamo la macchina. Sui bordi di quest’imbuto che pare essere una fornace ardente si produce senso anche se non è esso l’obiettivo dichiarato dell’artista. Ce lo indica il paziente lavoro manuale che è alla base della produzione dell’opera: essa stessa buco nero che assorbe energie enormi per produrre i nostri desideri. E’ a partire da questo oggetto artistico che elegantissime, medusee figure abitano i nostri pensieri spaziando in un’infinità concretizzata. Una sorta di dialogo paradossale tra finito e infinito, tra formale e informale ci attende sulla soglia situata tra l’osservatore e il quadro.
Che qualcosa si espanda o si contragga, che si mostri incandescente o morbidamente sfumata è nell’ordine della infinita trasformabilità della materia e delle nostre metamorfosi interiori di fronte a essa. Flaccus ci consegna con la sua perizia persino venature o anelli di fumo. Sono tavole che intercettano l’invisibile, in quanto inesistente fino al momento in cui Peter non ne ha forgiato le immagini. Trasparenze o opacità sono offerte alla nostra attenzione, affinché sia possibile prendere consapevolezza delle meravigliose possibilità del visibile. Il movimento resta un elemento fondamentale: è qui determinato dalla posizione della figura in rapporto allo sfondo e dell’accenno di una prospettiva sui generis e indica, più che una direzione, una fluttuazione.

Dal 2004 al 2005
Viene affrontato dall’artista una sorta di intento classificatorio delle proprie forme, quasi un tentativo di incasellare per colore, grandezza, tipologia e dettagli le forme create. Non certo un semplice abaco, ma la costruzione di immagini maggiormente complesse, sorta di galassia in cui riconoscere altre forme, a livello macroscopico. Divengono, inoltre, più evidenti alcune caratteristiche di queste meravigliose, suadenti, ammalianti forme: come se possedessero un rovescio o la possibilità di presentarsi contemporaneamente sia in forma energetica che materica, il tutto in dipendenza del fenomeno osservativo. Vetrini meravigliosi, o fotografie scattate da telescopi, terse, pulitissime immagini, ove si dispiegano entità di cui non sapremmo riferire la scala.

Dal 2006
Acquistano una relazione maggiormente articolata con la profondità, le forme che Peter Flaccus modella con la cera. Una profondità che si articola con il colore. Infatti, attraverso la variegata mescola delle cere di differente tonalità la forma si sfrangia e, quasi, perde materia per divenire pura aleatorietà. Forme studiate sul confine della loro dissolvenza. Nella metamorfosi che le condurrà, sfibrandosi, a dissolversi nel fondo. Colte un istante prima del loro disparire.

Dal 2007
Un’ulteriore dialogicità con lo sfondo è d’altronde la naturale via di fuga o di sviluppo per cogliere la complessità di ogni elemento, la divaricazione che ogni elemento ha in sé connaturato. Sfondo dunque presenta diversi piani e diverse consistenze. L’uso esclusivo del bianco/nero rende il dialogo più serrato, precisa che si tratta di prendere in considerazione solo alcuni elementi isolati dalla complessità del reale.

Dal 2008 al 2009
E’ un’elegantissima gamma dei grigi, ora a rendere incantevole il richiamo sireneo che spira da queste immateriali immagini. Un grigio che ingloba spazio erodendo i propri bordi, autoscavandosi, che dispiega diversi livelli di epidermide o di spazio siderale, il che è lo stesso. Oppure, che mostra come sarebbe se da un buco nel ghiaccio guardassimo a un glaciale astro. Comunque, il bianco della figura a malapena si distingue dalla sostanza che la accoglie, annullando qualsiasi tentativo di dialogo tra figure e sfondi. Repentinamente restaurata, d’altronde, nel quadro seguente. Anche noi, risucchiati da questi vetrini-cosmo, forse, mai più ne usciremo.