Rosa Pierno, maggio 2009
Peter Flaccus "Punto di fusione"
Come sarebbe un arancio intenso nel suo punto di fusione? Non sembra possibile che schiarisca, che si liquefi, dissolvendosi in un aereo colore, nebbiolina quasi umida al contatto. Ci si potrebbe però persino attardare nella considerazione di un suo graduale passaggio, mentre la temperatura aumenta, tra aree concentriche, corolle o aureole, ove vedremmo stemperarsi l’intensità dell’arancio: insomma, sulla superficie dei quadri di Peter Flaccus potremmo percorrere tutti i possibili stati dell’immaginazione a partire dal concetto di saturazione.
Solo con l’immaginazione, infatti, sono indagabili i limiti tra le forme, le sfumature non afferrabili, le approssimazioni e i salti, le giunture coi lembi sovrapposti, le non scontate cesure. Non vi è, infatti, in tali quadri che passaggio differenziale, limite che si approssima senza mai raggiungere l’altra sponda, indagato, eppure, istante dopo istante. Vi è visibile l’agglutinazione degli infinitesimi, la salvezza del concetto di continuità.
Su tali superfici, si potrebbero anche effettuare prove che verifichino tale risultato a partire da un pur così paradossale assunto: si potrebbe pensare che uno stadio della transizione sia costituito dalla prossimità di un colore diverso (freddo, complementare o avente il medesimo grado di saturazione) per verificare se anche il confine tra i colori risulti percorribile, sottoponibile a operazioni di derivazione.
Che cosa accada in queste astratte lande, in questi mondi compossibili o addensati, in questi conglomerati lucidi, tirati a cera, senza alcuna asperità che, pure, funzionano da appiglio è un enigma irrisolvibile. Il problema posto con le parole pare risolto solo dall’immagine.
L’introduzione di sfumature, dunque, non interverrebbe a complicare le già ardue cose all’interno del corpo radiante. Più, infatti, che a una maggiore complessità si assisterebbe a un rovesciamento. Il corpo centrale assumendo in sé le variabili caratteristiche della materia, quasi un disseccamento interno, mentre l’esterno del fiore, pianeta o cellula, resterebbe omogeneamente declinato.
L’oggetto è variamente posizionato all’interno di uno spazio a-priori, di un dato precedente a qualsiasi ipotetica assunzione. Senza sottrarsi ad alcuna sfida, l’artista combina il piatto con lo sferico facendo in modo che non sia ravvisabile l’area in cui il colore acquisisca la terza dimensione. Poiché l’altra paradossale caratteristica del colore è di poter assumere un volume pur non essendo forma.
Si potrebbe dire, pertanto, che il bianco all’interno delle tre fasce graduate di colore cilestrino sprofondi in un punto irraggiungibile rispetto alla plana stesura del rosso che le contiene, senza che ciò dia luogo ad alcuna contraddizione con le affermazioni precedenti.
D’altronde, molto accade su queste rarefatte tele: eventi pur puntuali sono disseminati con ironico ordine. Floreali calici o fiammelle di un bluastro gas si stemperano o ardono con i medesimi colori, sottolineando che forma è disgiunta da colore, che colore non partecipa al riconoscimento dell’oggetto.
Eventi di quali dissimili oggetti possono essere quelli che condividono i medesimi effetti?
Ma non viene tralasciato nemmeno il caso in cui la materia arsa, consunta, resa diafana da evaporazione, lasci trasparire fra le sue fibre il colore di fondo. O che in piena fusione fumighi e sfrigoli accendendosi lungo i bordi e alterando le tinte. Poiché se colore non ha forma, ha comunque una materia.
Rosa Pierno, maggio 2009